La lunga storia della malattia di Alzheimer tra ricerca e nuove terapie

La lunga storia della malattia di Alzheimer tra ricerca e nuove terapie

PUBBLICATO IL 12 MARZO 2025

La lunga storia della malattia di Alzheimer tra ricerca e nuove terapie

PUBBLICATO IL 12 MARZO 2025

Centro per l'Alzheimer e le patologie correlate (CARD)

Il 3 novembre del 1906, in occasione del 37° Convegno degli Psichiatri Tedeschi del Sud-Ovest a Tubinga, in Germania, un giovane psichiatra di nome Alois Alzheimer descrisse “una strana malattia della corteccia cerebrale” che aveva osservato nei 5 anni precedenti in una donna di 51 anni di nome Auguste D. 

La donna, ricoverata presso l’ospedale psichiatrico di Francoforte, presentava i sintomi della paranoia, era convinta che qualcuno potesse farle del male, e disturbi della memoria e del sonno. Disorientata nel tempo e nello spazio, Auguste aveva difficoltà a nominare alcuni oggetti comuni, per esempio, parlava di “oggetto in cui versare il latte” invece di “tazza”, urlava spaventata per ore, si scusava con i medici per non aver tenuto in ordine la casa, salvo poi improvvisamente accusarli di essere dei malintenzionati. Non capiva quasi mai il senso delle domande che le venivano rivolte. 

Col passare degli anni, i disturbi della memoria e del linguaggio, il senso di confusione e la perdita di sé e della propria identità erano aumentati, e Auguste era diventata sempre più apatica e incapace di compiere le azioni più elementari, fino a spegnersi nel 1906. 

L’analisi del cervello di Auguste, condotta dopo la sua morte, aveva mostrato depositi di placche di proteine tra i neuroni e di grovigli filamentosi al loro interno

Le osservazioni del giovane Alzheimer furono quasi ignorate dal resto degli scienziati presenti al convegno. Tuttavia, pochi anni più tardi, nel 1910, lo psichiatra Emil Kraepelin inserì la “malattia di Alzheimer” nella terza edizione del suo testo intitolato “Psichiatria” per descrivere i casi clinici simili a quelli di Auguste D, i quali nel frattempo erano diventati più frequenti nella letteratura medica. 

“Più di un secolo dopo, possiamo dire che ancora oggi la malattia di Alzheimer viene descritta, a livello molecolare e cellulare, dall’accumulo progressivo di placche di proteina amiloide all’esterno e di gomitoli di proteina tau all’interno dei neuroni”, ci raccontano il professor Massimo Filippi, Direttore dell’Unità di Neurologia e del Centro CARD dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e Professore Ordinario di Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, e la professoressa Federica Agosta, capo dell’Unità di Neuroimaging delle Malattie Neurodegenerative dell’Ospedale e Associata di Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, che abbiamo intervistato in occasione della Settimana Internazionale della Ricerca sul Cervello

 

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo della malattia di Alzheimer 

Quello che, a differenza di Alois Alzheimer, abbiamo capito negli anni è l’ordine cronologico con cui si presentano le caratteristiche molecolari e cellulari della malattia da lui descritte già nel 1906. 

“Oggi sappiamo che nel cervello affetto dalla malattia di Alzheimer si depositano per prime le placche di proteina amiloide”, spiega la professoressa Agosta. 

La proteina amiloide è normalmente presente in un cervello sano e contribuisce a modulare la trasmissione tra i neuroni e i processi di plasticità neuronale. “Le placche di proteina amiloide depositate nella malattia hanno caratteristiche strutturali molto diverse dai frammenti di proteina fisiologicamente presenti in un cervello sano. 

Questa differenza strutturale, peraltro, rende le placche caratteristiche dell’Alzheimer particolarmente resistenti all’aggressione e alla rimozione da parte delle cellule del nostro sistema immunitario, il cui intervento non è quindi sufficiente a risolvere da solo la malattia”, aggiunge il Professor Filippi.  

È solo in un secondo momento della malattia, successivo al deposito delle placche amiloidi e all’alterazione della trasmissione tra neuroni, che i gomitoli di proteina tau si manifestano all’interno delle cellule nervose. 

Tau è una proteina normalmente associata allo scheletro dei neuroni per mantenerlo stabile e favorire il trasporto di organelli e molecole lungo l’assone: nella malattia di Alzheimer, essa subisce una modifica molecolare che in ultima analisi provoca la formazione anomala dei grovigli filamentosi nei neuroni. 

Le cellule nervose, infine, non sopravvivono all’accumulo incontrollato di proteine amiloide e tau, andando incontro così alla neurodegenerazione e compromettendo le funzioni cognitive delle persone. 

“Purtroppo, a oggi, non abbiamo ancora capito quale sia la reale causa a monte di questi depositi di proteine tossici per i neuroni”, spiegano i 2 professori. 

 

Le 2 forme principali di malattia di Alzheimer 

Questo andamento per cui ai depositi di proteina amiloide seguono nel tempo i grovigli di tau è la firma di tutti i casi della malattia di Alzheimer, che possiamo smistare in 2 grandi categorie: 

  • la forma giovanile della patologia; 
  • la forma “tipica” o senile. 

La forma giovanile

La forma giovanile della malattia di Alzheimer, come nel caso della paziente Auguste D., si manifesta prima dei 65 anni, con un quadro clinico subito molto grave, e un decorso rapido e aggressivo. 

Nella forma giovanile, gli accumuli di amiloide e di gomitoli di tau si osservano fin dalle fasi iniziali sia nelle regioni cerebrali associate a memoria e orientamento, sia nelle regioni del cervello che regolano il giudizio, la pianificazione e il linguaggio e nelle aree che regolano la capacità di riconoscere gli oggetti e i volti. 

In questi casi, i sintomi iniziali includono anche: 

  • perdita di capacità di giudizio e pianificazione; 
  • difficoltà nel linguaggio e nel riconoscimento di cose o persone.

La forma “tipica” o senile

La forma tipica della malattia di Alzheimer, quella più comunemente conosciuta e più frequente, si manifesta intorno ai 70 anni ed è relativamente meno aggressiva della forma giovanile. 

In questa forma della malattia, gli accumuli si osservano dapprima nelle regioni del cervello che conservano i ricordi e che regolano l’orientamento nello spazio e nel tempo, il che spiegherebbe i sintomi iniziali di perdita di memoria e disorientamento.

“Tuttavia, nelle fasi tardive di entrambe le forme giovanile e senile della patologia, l’accumulo proteico e la neurodegenerazione che ne consegue arrivano a interessare tutto il cervello, fino a compromettere le azioni più elementari delle persone, come vestirsi, muoversi o mangiare”, aggiunge il Professor Filippi.

 

Il trattamento nelle fasi iniziali: l’anticorpo monoclonale Iecanemab

Oggi, purtroppo, non esiste una cura definitiva per la malattia di Alzheimer, che è “una malattia grave, prima causa di decadimento cognitivo e quinta causa di morte al mondo - commenta il professore -. Abbiamo dunque il dovere di promuovere la ricerca su questa terribile malattia, a causa della quale milioni di persone nel mondo perdono sé stesse, con conseguenze devastanti per la loro vita e per quella dei loro cari e per i sistemi sanitari. 

E proprio grazie ai progressi della ricerca, lo scorso novembre 2024, l’Agenzia Europea per i Medicinali ha approvato l’utilizzo dell’anticorpo monoclonale lecanemab per il trattamento della malattia di Alzheimer nelle sue fasi iniziali”, racconta il professore. 

L’anticorpo monoclonale lecanemab ha l’effetto di rimuovere in poche settimane gli accumuli di proteina amiloide dal cervello. Quest’azione si traduce in un lieve, ma significativo, rallentamento del declino cognitivo nei pazienti in cui la malattia si è appena manifestata dal punto di vista clinico. 

“I farmaci come lecanemab svolgono la loro funzione favorendo l’eliminazione delle fibrille di amiloide e promuovendo la risposta infiammatoria contro le placche stesse. Sembrerebbe che questi anticorpi promuovano uno scambio di materiale tra il sangue e il cervello, favorendo da un lato la rimozione di proteina amiloide dal cervello e dall’altro l’ingresso nel tessuto cerebrale di proteine e fluidi provenienti dal sangue”, spiega la professoressa Agosta. 

Questo meccanismo d’azione del lecanemab spiegherebbe anche gli effetti collaterali che il farmaco produce in circa il 30% dei casi. 

“Può infatti succedere che, a seguito dello scambio di proteine e fluidi tra sangue e cervello, in quest’ultimo si riversi troppo fluido che genera edema cerebrale, cioè un rigonfiamento pieno d’acqua che può danneggiare i neuroni. Può inoltre accadere che la fuoriuscita di fluidi e proteine provochi la rottura dei vasi cerebrali, causando così delle piccole emorragie”, continua la Professoressa. 

Questi possibili effetti collaterali di lecanemab sono anche la ragione per cui il farmaco non è approvato per quei pazienti che possiedono 2 copie di APOE4, che è una variante di un gene che fornisce le istruzioni per la sintesi di una proteina chiamata apolipoproteina E. 

Infatti, la malattia di Alzheimer si presenta con una forma più aggressiva e un decorso peggiore nei pazienti portatori della variante genetica APOE4, che li espone di per sé a una maggiore probabilità di sperimentare edema cerebrale e microemorragie, “motivo per cui non è possibile somministrare il lecanemab a questo gruppo di pazienti, già particolarmente vulnerabili a questo tipo di complicazioni”, spiega la professoressa Agosta. 

 

I farmaci e le terapie in fase di valutazione e sperimentazione

Un secondo anticorpo monoclonale diretto contro l’amiloide, donanemab, è stato approvato dall’Agenzia per i Medicinali e gli Alimenti (FDA) americana ed è in fase di valutazione presso il Comitato per i medicinali per uso umano dell’Agenzia Europea per i Medicinali. L’efficacia e le indicazioni di donanemab sono paragonabili a quelle di lecanemab. 

Inoltre, la ricerca clinica è oggi attivamente impegnata a sperimentare la sicurezza e l’efficacia di altri tipi di anticorpi monoclonali che abbiano una maggior capacità di ingresso nel cervello e che, a parità di efficacia, possano ridurre gli effetti collaterali. 

“Esistono, inoltre, delle sperimentazioni che hanno come bersaglio i gomitoli di proteina tau. Per esempio, noi stessi in Ospedale San Raffaele stiamo testando un farmaco che agisce al livello del gene della proteina tau”, commentano i professori. 

È plausibile che in futuro il trattamento della malattia di Alzheimer dovrà essere una politerapia, ovvero basato sull’impiego di più tipi di farmaci che abbiano come bersaglio non solo le placche di proteina amiloide e i gomitoli di tau, ma anche l’infiammazione ed altri processi patologici. 

“Purtroppo, non è ragionevole pensare che la rimozione delle sole placche di proteina amiloide, che avviene già grazie agli anticorpi come lecanemab e donanemab, sia la soluzione definitiva a una malattia così complessa qual è quella di Alzheimer. 

D’altro canto, a oggi questi farmaci sono gli unici a disposizione in grado di agire direttamente sulla patologia, rallentarne il decorso e quindi recuperare tempo prezioso per la vita delle persone coinvolte”, concludono i 2 professori.