Morbo di Crohn: cos’è e come si cura

PUBBLICATO IL 18 FEBBRAIO 2022

L’impegno del San Raffaele per il trattamento e la ricerca di terapie sempre più efficaci per le malattie infiammatorie croniche dell’intestino

La malattia di Crohn, più comunemente definita ‘morbo di Crohn’, è una malattia infiammatoria dell’intestino e può colpire tutto il tratto gastrointestinale. A seconda della localizzazione, i sintomi che si possono manifestare sono differenti e, per chi ne soffre, possono trasformarsi in condizioni altamente invalidanti. 

Grazie alla ricerca, però, le terapie oggi a disposizione per interferire con i processi infiammatori e autoimmuni nella malattia di Crohn sono sempre più mirate ed efficaci. Anche il San Raffaele è in prima linea in questo campo, grazie al lavoro dell’equipe del prof. Silvio Danese, primario di Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e professore ordinario all’Università Vita-Salute San Raffaele.

 

Che cos’è la malattia di Crohn?

La malattia di Crohn, insieme alla rettocolite ulcerosa, sono le due principali forme di malattie infiammatorie dell’intestino (MICI), caratterizzate da un’attivazione immunitaria cronica o recidivante nel tratto gastrointestinale. La risposta immunitaria continua, che si scatena contro l’intestino, a sua volta provoca una forte infiammazione.

Anche se può colpire l’intero tratto gastrointestinale, nella maggior parte dei casi la malattia di Crohn interessa l’ultima parte dell’intestino tenue e il colon ed è caratterizzata principalmente da ulcere derivate dall’infiammazione. Se non trattate adeguatamente, queste possono portare a complicanze come stenosi (ristringimenti intestinali) o addirittura fistole (vere e proprie perforazioni) che, in alcuni casi, richiedono l’intervento chirurgico.

 

Cause e sintomi della malattia di Crohn

Ad oggi, purtroppo, le cause della malattia di Crohn non sono ancora note e i ricercatori sono impegnati nel capire i fattori principali che spingono le cellule del sistema immunitario ad ‘attaccare’ l’intestino e a provocare la conseguente infiammazione cronica.

I sintomi possono essere molto diversi fra loro e variano a seconda del tratto gastrointestinale interessato. I sintomi più frequenti sono:

  • dolore addominale;
  • diarrea cronica (che persiste, cioè, per più di 4 settimane);
  • febbricola;
  • perdita di peso.

“Nei casi più severi, l’infiammazione può portare a ulcere nella parete dell’intestino, causando lo sviluppo di gravi complicanze, come fistole, ascessi o stenosi. Le terapie oggi disponibili e i controlli regolari permettono tuttavia ai pazienti di controllare in sicurezza la progressione della malattia nella maggior parte dei casi”, spiega Silvio Danese.

 

Diagnosi precoce e prevenzione delle complicanze

“Spesso la malattia di Crohn viene confusa con la sindrome del colon irritabile e ciò porta a ritardo diagnostico con relative complicanze. Anche se non è possibile purtroppo prevenire l’insorgenza della malattia di Crohn, è importante intervenire tempestivamente tramite una corretta diagnosi e prevenire le eventuali complicanze grazie a un attento monitoraggio. Tenere sotto controllo l’evoluzione della patologia aiuta, infatti, i pazienti a condurre una vita più regolare” afferma Danese.

La diagnosi precoce della malattia e la prevenzione di complicanze avviene principalmente tramite:

  • analisi del sangue;
  • analisi delle feci;
  • esami non invasivi dell’addome (ecografia anse intestinali, TC, Risonanza magnetica addominale) in caso di diarrea cronica, dolori addominali, perdita di peso etc. Questi esami servono per valutare la parete intestinale, per escludere o diagnosticare eventuali complicanze.

A questi si aggiungono alcuni esami invasivi – come la gastroscopia o la colonscopia – che permettono ai medici di valutare in diretta lo stato della mucosa intestinale e indagare, a livello microscopico, se ci sono alterazioni strutturali del tessuto. Attraverso biopsie effettuate a intervalli regolari è infatti possibile prevenire eventuali neoplasie intestinali.

 

Le cure

L’obiettivo comune ai trattamenti attualmente disponibili per la malattia di Crohn è quello di ‘spegnere’ l’infiammazione intestinale per indurre una remissione dei sintomi e mantenere questa condizione nel lungo periodo. Nel caso di insorgenza di complicanze gravi e irreversibili, la chirurgia resta comunque un approccio fondamentale.

Tra le classi di farmaci più utilizzati si trovano gli immunosoppressori, come l’azatioprina, la 6-mercaptopurina e il metotrexate, per ridurre l’attività del sistema immunitario. 

“Grazie alla ricerca degli ultimi anni, abbiamo a disposizione terapie di ultima generazione che sono in grado di interferire, in maniera sempre più specifica, con i processi infiammatori e autoimmuni caratteristici della malattia di Crohn. Un esempio è dato dagli anticorpi monoclonali, come ustekinumab”, specifica Danese.

Come impostare al meglio la terapia

È importante, oltre alla scelta del farmaco più adatto, definire al meglio i dosaggi della terapia. “Per alcune patologie, come l’artrite reumatoide, il diabete e l’ipertensione, si utilizzano strategie treat-to-target, che ‘aggiustano’ la terapia e intensificano il dosaggio sulla base di indicatori e monitoraggi ben precisi. Per altre, invece, ci si basa sulla valutazione clinica dei pazienti e quindi solo sulla loro sintomatologia” spiega Danese.

“Abbiamo così deciso di valutare se per la malattia di Crohn avesse più successo un approccio treat-to-target, rispetto alle strategie di trattamento classiche, dove ai sintomi clinici si aggiunge:

  •  l’utilizzo dell’endoscopia precoce;
  • monitoraggio regolare dei biomarker”.  

 

STARDUST: lo studio del San Raffaele

Lo studio multicentrico coordinato dal professor Danese, pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet Gastroenterology Hepatology, è il primo al mondo di questo tipo sulla malattia di Crohn e ha visto l’arruolamento di 498 pazienti affetti dalla patologia, da moderata a grave, che ricevono l’anticorpo monoclonale ustekinumab. I pazienti provenivano da ben 12 paesi europei.

I soggetti sono stati divisi in 2 gruppi: 221 hanno seguito il protocollo classico seguendo il dosaggio del farmaco indicato dalle linee guida europee; mentre 219 la strategia treat-to-target, in cui, sulla base dei risultati dell’endoscopia precoce e del monitoraggio regolare dei biomarcatori, si procedeva, laddove necessario, ad aumentare la dose del farmaco. 

A distanza di 1 anno, i medici non hanno osservato alcuna differenza significativa tra i due approcci di trattamento, anche se ustekinumab ha ottenuto buoni risultati di efficacia per entrambi i regimi e nel secondo gruppo l’aumento del dosaggio non ha implicato un maggiore rischio.

“Questo significa che aumentare il dosaggio non ha portato a risultati endoscopici significativamente migliori rispetto allo standard di cura in tutta la popolazione, ma nella sottocategoria specifica di pazienti con malattia di Crohn con lesioni endoscopiche più severe ha portato a beneficio maggiore. Questi risultati suggeriscono che i pazienti con malattia più severa potrebbero beneficiare effettivamente di trattamenti treat-to-target - spiega Danese  -. Solo attraverso studi clinici di comparazione di trattamenti rigorosi come questo possiamo realmente capire quali sono gli approcci terapeutici più efficaci. L’obiettivo è fornire ai pazienti le migliori scelte di cura disponibili al momento, riducendo al minimo gli esami invasivi e dosando i farmaci nella maniera migliore possibile”.

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