Cos'è e quali sono i sintomi dell'osteomielite?
PUBBLICATO IL 23 NOVEMBRE 2021
L’osteomielite è un’infiammazione dell’osso causata spesso da un batterio. Il chirurgo ortopedico spiega come diagnosticarla e curarla.
L’osteomielite è una delle più antiche malattie segnalate dalla comunità scientifica. Definita nel 1844 dal chirurgo francese Auguste Nelaton come un'infiammazione dell'osso causata da un agente infettivo, era molto diffusa in passato e di difficile risoluzione sia per la carenza di strumenti diagnostici, sia terapeutici.
Scopriamo insieme al dottor Antonio Pellegrini, responsabile dell’Unità operativa C.R.I.O. - Chirurgia Ricostruttiva e delle Infezioni Osteo-Articolari dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi, come si diagnostica e come trattarla in maniera efficace.
I sintomi
“L’infezione del tessuto scheletrico si presenta classicamente con dei sintomi comuni ai quadri infiammatori che si sviluppano nel distretto colpito dalla malattia. Tra questi:
- calore;
- dolore;
- tumefazione;
- limitazione funzionale.
Solitamente, il primo sintomo che porta il paziente dal dottore è il dolore a cui si associano gli altri segnali dell’infiammazione”, spiega lo specialista.
Come si fa la diagnosi
La diagnosi si basa sull’aspetto clinico e su alcuni esami ematici e strumentali: “Con un semplice esame del sangue, gli esami da eseguire sono:
- Emocromo con la formula (nello specifico i globuli bianchi e la formula leucocitaria);
- Proteina C reattiva;
- VES (velocità di eritrosedimentazione).
Eventualmente, può risultare utile esaminare altri parametri indicatori di un quadro infiammatorio che, in occasione della comparsa di queste malattie, tendono a innalzarsi - sottolinea lo specialista -. L’innalzarsi di questi indici di flogosi correlato a un dolore comparso in un segmento scheletrico è un campanello d’allarme che ci deve indurre il ragionevole sospetto di questa malattia.
Segue poi l’indagine radiologica che prevede:
- una semplice radiografia (fondamentale nella procedura diagnostica);
- la risonanza magnetica che è probabilmente l’esame ideale per riconoscere questo tipo di patologia;
- la TC utile per progettare delle strategie chirurgiche più dettagliate;
- la medicina nucleare come la scintigrafia con i leucociti marcati, la PET-TC.
Tutti esami che possono esserci utili per disegnare nella maniera più corretta la geografia dell’infezione”.
L’indagine microbiologica
“Infine, rimane l’indagine microbiologica. È fondamentale e importantissimo conoscere l’identità del battere responsabile dell’infezione, perché in questo caso sappiamo qual è l’antibiotico più indicato per combatterlo.
Conoscere il microrganismo responsabile dell’infezione e il relativo antibiogramma (un’analisi che permette di capire qual è l’antibiotico più idoneo per colpire il microrganismo responsabile dell’infezione) è necessario per poter impostare una terapia antibiotica mirata. Non si può e non si deve andare a caso - avverte il dott. Pellegrin - .
Negli anni si è assistito a un uso indiscriminato di antibiotici (spesso non necessari) che hanno portato i batteri a sviluppare delle resistenze agli antibiotici ovvero a rendere gli antibiotici inutili. I batteri sono dei microrganismi presenti sulla terra da molto tempo, estremamente ‘intelligenti’ e con grande capacità di adattamento. Da qui, nasce la necessità di usare correttamente gli antibiotici in modo da evitare un abuso sconsiderato che promuova ulteriori pericolose resistenze.
Infine è necessario eseguire correttamente i prelievi di tessuto utili per eseguire un esame colturale. Per questo ci si deve avvalere di metodiche standardizzate (assenza di terapia antibiotica in corso, procedura di prelievo, stoccaggio del materiale e tempi di consegna al laboratorio) che consentono di affidare il materiale prelevato al microbiologo. Quest’ultimo deve ricercare la crescita di questi microrganismi per tempi prolungati fino a 15 giorni per dare tempo ai batteri anche ai più lenti di moltiplicarsi e rendersi visibili.
Ecco allora che si capisce l’importanza di un team affiatato di specialisti, come ortopedico, radiologo, laboratorio analisi, microbiologo, infettivologo che devono collaborare insieme per poter avere i migliori risultati terapeutici”.
Forme acute e forme croniche
L’osteomielite è quindi una infiammazione dell’osso causata da un agente infettivo che, per lo più, è sostenuta da batteri.
“Si distinguono forme acute e forme croniche - spiega il dott. Pellegrini -. A seconda del tipo di osteomielite, si verificheranno quadri clinici più evidenti, piuttosto che quadri clinici meno chiari e subdoli anche da un punto di vista diagnostico. La fisiopatologia dell’osteomielite prevede tre situazioni differenti:
- ematogena: più frequente nella popolazione giovanile, soprattutto nei ragazzini in età scolare. Colpisce solitamente quelle aree dello scheletro ben vascolarizzate.
- Secondaria a un’infezione contigua: classicamente post traumatica o correlata agli impianti protesici. È tipica dell’adulto e si riscontra principalmente in quelle persone che hanno avuto fratture esposte, e che quindi si sono contaminate.
- Associata a una problematica vascolare periferica: un esempio classico è il piede diabetico, anche se rappresenta una minoranza”.
Come trattare la osteomielite
Nelle forme acute, il trattamento si basa prevalentemente sulla terapia antibiotica, solo raramente è utile anche evacuare chirurgicamente l’ascesso (pus) che si viene a formare. In questi casi la chirurgia è volta a svuotare la raccolta, fonte di dolore, e ripulire i tessuti infetti. È un intervento che viene effettuato in sala operatoria.
Il trattamento antibiotico, nel post-operatorio, viene prolungato per settimane (circa 6 settimane, a discrezione dall’infettivologo e dell’andamento della malattia), quindi sono malati seguiti a lungo. Gli antibiotici devono essere acquisiti o per via orale o per via endovenosa o per via intramuscolare.
“Una caratteristica specifica delle forme croniche di osteomielite è la presenza di un sequestro, frammento di osso necrotico circondato da tessuti vitali - conclude Pellegrini -. Questo tessuto necrotico, colonizzato dai batteri, diventa molto difficile da curare proprio, perché non è vascolarizzato (cioè, irrorato di sangue). Per questo motivo, nemmeno l’antibiotico che noi utilizziamo può raggiungerlo. Da qui si capisce la necessità di dover ricorrere all’intervento chirurgico, la sequestrectomia, che consiste appunto nell’asportazione del sequestro associata a una pulizia dei tessuti molli e alla terapia antibiotica”.